domenica 16 ottobre 2011

Al di qua del vetro si gioca un solitario

ispirato al cortometraggio "al di là dal vetro" di Erri De Luca

Lo  incontro in cucina. E’ sveglio e scosso, accenna ad un sogno e ad un sonno disturbato, ma io faccio finta di niente. Sembra stupito di vedermi ancora in piedi, sveglia nel cuore della notte, come se non sapesse… . Si accorge delle carte da gioco abbandonate sul tavolo e mi offre di incominciare assieme un solitario, lo chiama: “Il nostro solitario ”, come se ci appartenesse ancora, come se le regole  consentissero di giocare un solitario in due. Allora  io accetto, perché penso che infondo anche così, tra noi due, adesso, si può giocare un solitario.
Il solitario inizia. Le nostre chiacchiere ci accompagnano ed io racconto della guerra. Gli parlo dell’urlo delle sirene, delle notti dormite con i vestiti addosso, delle corse nei ricoveri per accaparrarsi il posto migliore, “come a teatro!”, e lui ascolta. Di tanto in tanto  mentre chiacchiero mi volto verso di lui e lo scopro mentre muove la bocca in silenzio, ricalcando con il movimento delle labbra le mie stesse parole o anticipando la fine della frase che sto per pronunciare. I miei ricordi dei bombardamenti ormai deve conoscerli a memoria, penso fra me e me, però lui non m’interrompe più di tanto e allora io continuo. Proseguiamo assieme il solitario.
Mi toglie la parola per iniziarmi a raccontare delle sue di guerre, quelle che si è andato a cercare volontariamente in giro per il mondo e lo fa fin quando non  ci troviamo d’accordo nel sostenere che nessuno terrorismo politico può essere paragonato al terrore ispirato dal bombardamento di una città. Mi parla di Belgrado, ma  troviamo anche il tempo per accennare a suo padre, emigrato in America e tornato in patria perché non avevo alcuna intenzione di lasciare Napoli. Si continua il solitario.
Infine si parla di noi, della sua attrazione per il pericolo, fatto di guerre di come di montagne scalate, e delle smancerie che non ci siamo mai scambiati, di come io non sia stata come tutte le altre madri. Arriva a farmi dire di essermi convinta che ormai fosse immortale, di avermi talmente abituata a sopravvivere ad ogni suo rischio, che il giorno in cui l’infarto me lo stava per stroncare quasi non mi pareva possibile. Gli dico che una madre non dovrebbe sopravvivere al proprio figlio…come se  non sapessi.
Viene fuori che sta scrivendo un libro che io non ho ancora letto. E’ terminato, già consegnato all’editore, ma io non ne so niente e glielo dico. Lui si stupisce, sostiene che io avrei dovuto già conoscerlo perché leggo sempre i suoi libri non appena sono conclusi, ma io nego di nuovo, così lui si innervosisce, si agita, si comporta come se non sapesse…e alla fine si sveglia.
Si alza dal letto, guarda una foto di quando ero ancora viva, poi si dirige verso la porta e guarda al di là del vetro, come se non volesse credere a quello che è accaduto, come se non avesse sempre saputo che da questo lato del vetro, adesso, tra di noi,  al massimo si può giocare un solitario.     

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