ispirato al cortometraggio "al di là dal vetro" di Erri De Luca
Lo incontro in cucina. E’ sveglio e scosso, accenna
ad un sogno e ad un sonno disturbato, ma io faccio finta di niente. Sembra stupito
di vedermi ancora in piedi, sveglia nel cuore della notte, come se non sapesse…
. Si accorge delle carte da gioco abbandonate sul tavolo e mi offre di
incominciare assieme un solitario, lo chiama: “Il nostro solitario ”, come se
ci appartenesse ancora, come se le regole
consentissero di giocare un solitario in due. Allora io accetto, perché penso che infondo anche così,
tra noi due, adesso, si può giocare un solitario.
Il solitario inizia. Le nostre
chiacchiere ci accompagnano ed io racconto della guerra. Gli parlo dell’urlo
delle sirene, delle notti dormite con i vestiti addosso, delle corse nei
ricoveri per accaparrarsi il posto migliore, “come a teatro!”, e lui ascolta.
Di tanto in tanto mentre chiacchiero mi
volto verso di lui e lo scopro mentre muove la bocca in silenzio, ricalcando con
il movimento delle labbra le mie stesse parole o anticipando la fine della frase
che sto per pronunciare. I miei ricordi dei bombardamenti ormai deve conoscerli
a memoria, penso fra me e me, però lui non m’interrompe più di tanto e allora
io continuo. Proseguiamo assieme il solitario.
Mi toglie la parola per iniziarmi
a raccontare delle sue di guerre, quelle che si è andato a cercare
volontariamente in giro per il mondo e lo fa fin quando non ci troviamo d’accordo nel sostenere che
nessuno terrorismo politico può essere paragonato al terrore ispirato dal
bombardamento di una città. Mi parla di Belgrado, ma troviamo anche il tempo per accennare a suo
padre, emigrato in America e tornato in patria perché non avevo alcuna
intenzione di lasciare Napoli. Si continua il solitario.
Infine si parla di noi, della sua
attrazione per il pericolo, fatto di guerre di come di montagne scalate, e
delle smancerie che non ci siamo mai scambiati, di come io non sia stata come
tutte le altre madri. Arriva a farmi dire di essermi convinta che ormai fosse
immortale, di avermi talmente abituata a sopravvivere ad ogni suo rischio, che
il giorno in cui l’infarto me lo stava per stroncare quasi non mi pareva
possibile. Gli dico che una madre non dovrebbe sopravvivere al proprio
figlio…come se non sapessi.
Viene fuori che sta scrivendo un
libro che io non ho ancora letto. E’ terminato, già consegnato all’editore, ma
io non ne so niente e glielo dico. Lui si stupisce, sostiene che io avrei
dovuto già conoscerlo perché leggo sempre i suoi libri non appena sono conclusi,
ma io nego di nuovo, così lui si innervosisce, si agita, si comporta come se
non sapesse…e alla fine si sveglia.
Si alza dal letto, guarda una
foto di quando ero ancora viva, poi si dirige verso la porta e guarda al di là
del vetro, come se non volesse credere a quello che è accaduto, come se non
avesse sempre saputo che da questo lato del vetro, adesso, tra di noi, al massimo si può giocare un solitario.
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